Il disturbo borderline di personalità (BPD; borderline personality disorder) ha, già da diversi anni, ottenuto grande attenzione da parte di clinici e ricercatori, interesse che ha permesso di sviluppare e implementare trattamenti che si sono dimostrati molto efficaci e quindi di grande aiuto per coloro che ne soffrono. Come sostiene il dott. Marsigli dell’Istituto IPSICO di Firenze, rispetto ad altri disturbi, ormai ampiamente conosciuti anche dalla popolazione generale come la depressione, il disturbo di panico, il disturbo d’ansia da malattia, i disturbi di personalità rimangono poco chiari ai non addetti ai lavori, in quanto i problemi derivano da aspetti sintomatologici e manifestazioni comportamentali, che sono però la risultante di caratteristiche di personalità esagerate, rigide e inflessibili.
Infatti, quando parliamo di personalità ci riferiamo a caratteristiche della persona che sono responsabili di modelli coerenti di sentire, pensare e comportarsi, che sono la risultante di una serie di operazioni mentali: costruire un’immagine di sé, dare significato al mondo, agire, relazionarsi con gli altri, trovare risoluzione a problemi. Se i meccanismi deputati a tali operazioni sono mal funzionanti, la disfunzione si estende a vaste aree della vita sociale e interiore, assumendo la forma del disturbo di personalità.
Il DSM-5, il manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali, definisce un disturbo di personalità come “un pattern costante di esperienza interiore e di comportamento che devia marcatamente rispetto alle aspettative della cultura dell’individuo, è pervasivo e inflessibile, esordisce nell’adolescenza o nella prima età adulta, è stabile nel tempo e determina disagio o menomazione”.
Quindi, affinché una persona possa avere una diagnosi di disturbo di personalità, vi devono essere delle estremizzazioni e rigidità che causano compromissioni significative nelle relazioni con gli altri e nella qualità di vita dell’individuo. Ad esempio, alcuni comportamenti o stati mentali non rientrano nei canoni di una normale variazione (patologico), insorgono nella prima età adulta e compaiono con una certa frequenza per un arco di tempo che comprende almeno gli ultimi 5 anni (persistente) e si presentano in un ampio spettro di contesti o relazioni (pervasivo).
Quando vi sono queste caratteristiche, non parliamo solo di “un brutto carattere”, ma di una condizione invalidante che causa sofferenza e/o disagio a sé e agli altri.
Nello specifico, il disturbo borderline di personalità fa parte del gruppo B dei disturbi di personalità descritti nel DSM-5, cluster che include anche il disturbo antisociale, istrionico e narcisistico. Gli individui appartenenti a questo gruppo spesso appaiono amplificativi, emotivi o imprevedibili.
Ma il disturbo borderline include, al suo interno, una grande variabilità ed eterogeneità, sia per il fatto che non sempre tutti i tratti descritti nel manuale sono presenti e sia perché vi possono essere oscillazioni tra momenti di relativo benessere a momenti di estrema sofferenza. Possiamo comunque ritrovare dei fattori più frequentemente associati al disturbo:
- problematiche personali e dell’identità, in quanto spesso questi pazienti hanno delle sensazioni confuse riguardo alla propria identità e tendono ad esaminare attentamente l’ambiente esterno per trarne delle indicazioni su come devono agire o essere. Inoltre le relazioni con gli altri sono caratterizzate da “alti e bassi” e da idealizzazioni e svalutazioni che mettono a dura prova i rapporti.
- Disregolazione affettiva. Questo disturbo si caratterizza per un disordine pervasivo del sistema di regolazione emozionale che porta a comportamenti problematici e disfunzionali soprattutto nelle relazioni con l’altro. Vi è una sorta di vulnerabilità, un’elevata sensibilità nello sperimentare emozioni, che porta a reagire in modo più intenso rispetto alla media della popolazione. Ciascuno di noi è sempre mosso da emozioni, date da eventi interni o esterni, ma chi soffre di questo disturbo può essere ritenuto più “sensibile”, in quanto vi è la sensazione di provare emozioni più intense, da cui ci si sente sopraffatti, anche se il livello di attivazione emotiva è uguale a quello di altre persone. Ciò che cambia è la tolleranza per questa intensità.
- Impulsività. Spesso la conseguenza di questa attivazione emotiva, è la messa in atto di comportamenti disfunzionali: comportamenti autolesionistici, come ad esempio tagliarsi, usare sostanze, abbuffarsi, hanno la funzione di regolare l’emotività, salvo poi far entrare la persona in un circolo vizioso in cui si continuano ad attivare le emozioni negative tanto difficili da controllare. Ad esempio, la rabbia può essere gestita attraverso un’abbuffata, che porterà poi a sperimentare vergogna o rabbia verso di sé, che porterà ad una nuova abbuffata e così via.
Tra i comportamenti impulsivi quelli suicidari sono spesso presenti in questo disturbo e possono avere diverse finalità: il tentato suicidio solitamente è una dichiarazione di intenti di voler morire, anche se i mezzi utilizzati sono inadeguati. Ma, spesso, il desiderio ultimo non è quello di morire, ma richiamare l’attenzione sul proprio malessere, solitudine e disperazione.
Inoltre, i pensieri di morte sembrano abbassare l’arausal cerebrale, in quanto sapere che c’è una via d’uscita dall’estrema sofferenza aiuta ad abbassare il livello di attivazione emotiva. Per prevenire il suicidio solitamente si analizzano i fattori di vulnerabilità della persona: l’uso di sostanze, l’isolamento sociale, la valutazione del pensiero suicidario e altri ancora, possono dare al clinico indicazioni utili per prevenire un evento così terribile.
Al di là dell’espressione fenomenologica del disturbo, ciò che queste persone condividono sono due nuclei centrali, schemi basici di sé (un’idea di fondo costituita da ricordi, emozioni, comportamenti formatasi a seguito delle esperienze di vita), che organizzano l’esperienza del soggetto. La persona, infatti, ha la percezione profonda che in sé vi sia qualcosa di sbagliato, indegno, mostruoso, degradato e che verrà facilmente ferita, esposto a catastrofi ed aggressioni.
Queste convinzioni di base porteranno ai comportamenti sopra descritti e alle relazioni problematiche con l’altro. Tali idee di sé nucleari (di cui la persona può non essere consapevole ma viverne solo le conseguenze) derivano solitamente da esperienze di vita che si sono ripetute, e sono caratterizzate da temi di abbandono, abuso, deprivazione emotiva e invalidazione da parte degli altri significativi.
Ad esempio le figure di riferimento possono essere spaventate (mostrando espressioni di paura mentre accudiscono il bambino) e/o spaventanti (quando aggrediscono il bambino), portandolo a rappresentazioni incoerenti e contraddittorie dell’immagine di sé e dell’altro, in quanto colui che si deve prendere cura, diventa contemporaneamente vittima da confortare e persecutore da temere.
Da ciò si evince come il lavoro terapeutico con questi pazienti debba essere su più livelli, andando a costruire nuovi schemi di sé, agendo sullo sviluppo di nuove abilità di regolazione emotiva, cognitiva e relazionale, partendo dalla relazione terapeutica, affinché si possa poi generalizzare all’esterno. Terapie come la Schema Therapy, la Terapia Metacognitiva Interpersonale (TMI) o la Dialectical Bheaviour Therapy (DBT), che condividono un approccio cognitivo comportamentale di base, hanno dimostrato un’ampia efficacia per questo disturbo, che significa, per il paziente, una maggiore gestione della propria vita e delle relazioni con l’altro.